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Azkadellia

Dopo aver esordito nel novembre 2017 con il loro EP “Metal Sexual Toy Boy” (Bello Records) e dopo un ampio tour che li ha visti sempre, anche sul palco, in compagnia del robot che dà nome alla band, per i bresciani Simone Ferrari e Davide Chiari è il momento del primo album: “Azkadellia” uscirà il 9 novembre per Bello Records. Il disco si apre con “J. Matula”, omaggio musicale a un telefilm tedesco (andato in onda anche in Italia con il titolo “Un caso per due”) e al suo irriverente protagonista: un brano ricco di chitarre veloci che si mescolano a synth glam anni Ottanta. Se quello del telefilm è lo spunto musicale, il testo invece parla di Simon Diamond e Dave the Wave, dietro cui ovviamente si nascondono i due membri umani della band. Ed è una dichiarazione di intenti non a caso piazzata in apertura dell’album: a differenza che nell’EP, Chiari e Ferrari si espongono maggiormente invece che lasciare quasi tutta la scena al loro compagno robot. Il quale però torna protagonista nella seconda traccia: perché se Tin Woodman avesse un nemico sarebbe “Captain Fyter”. Capiamo così che questo disco si snoda tra gli immaginari capitoli della vita di un robot umanizzato e dei suoi due più cari amici, la storia di una band con un registratore a nastro che lancia basi sui palchi. Poi, tra una strizzata d’occhio ai Run DMC e ai Beastie Boys, spunta “MC Woodie”, avventura hip hop tra voci rappate e ritornelli anni Sessanta. La passione per Pavement e Grandaddy si assapora in “Barber Lover” dove sono più chiari i nessi con un estetica sonora dei primi anni Duemila. La chiave di volta dell’album si ha nella parte centrale del disco con “I could see through the dark”, brano che rappresenta in modo equilibrato lo stile compositivo derivante dall’intreccio delle idee di Dave the Wave e Simon Diamond. Si balla con “Dancefloor Shadows”, mentre “Murder She Wrote” lascia spazio alla psichedelia costruita sulle ipnotiche chitarre di Davide, in un brano ispirato dalle avventure di Jessica Fletcher, la celebre Signora in Giallo. Dopo lo spazio dedicato al villain, ecco che il sipario si alza sulla storia di amore di Tin Woodman: nella sognante “Silver Girl” troviamo una robot bella, complicata, elettronicamente più sofisticata ma vulnerabile. La successiva “A.S.A.P (A Swift African Pulse)” è un brano che richiama un brit pop venato di profumi funk’n’soul e ci conduce alla splendida chiusura di “Azkadellia”: “Zephyr” è un pezzo che si staglia tra tutti nella sua modernità, mescolando divinamente hip-hop e dream pop, elettronica e basso, chitarre e fiati (ospiti sono anche le bellissime voci di Chiara Amalia Bernardini dei Kick e Sara Ammendolia aka Her Skin). Un brano che non sfigurerebbe in un disco di Destroyer o dei Tame Impala. Invece sono in Tin Woodman da Brescia, due ragazzi e un robot appassionati di elettronica, chitarre e nastri, che ci raccontano di mondi immaginari pieni di colori, ritmo e tenerezza (non a caso i nomi Tin Woodman e Azkadellia sono tratti dal mondo di Oz) e di notti in cui ballare ed emozionarsi finché non arriva il mattino.

Post-Truth

“Post-Truth” è il nuovo EP del duo di Brescia formato da Chiara Amalia Bernardini e Nicola Mora, la cui uscita di settembre è stata anticipata prima dell’estate dalla pubblicazione di due singoli e video (quello di “Marmalade” e quello di “Glitch Souls”). Il duo ha definito il proprio stile tra elettronica, trip hop, noise e dream pop – con l’EP (“Kick_” 2016) e il primo album (“Mothers”) – ma il sound di questo nuovo EP è maggiormente caratterizzato da ritmiche vicine alla musica black e da un’attitudine più psichedelica, data dall’utilizzo ambientale e rumoristico delle chitarre e dalla dimensione corale delle melodie vocali. Il filo conduttore tematico dei brani e delle atmosfere è, come enunciato dal titolo, quello dell’epoca della post-verità, nello svuotamento progressivo dei concetti di vero e falso, un processo al contempo affascinante e distruttivo: il rischio è quello di trasformarci in un popolo di eroi passivi virtuali, travolti dalla sovrapposizione tra realtà e finzione da noi stessi originata.
Durante i live, i Kick si trasformano in un trio, dove Chiara canta, Nicola suona la chitarra, e il terzo membro gestisce synth, percussioni e live electronics.

Mitch

Tra le primissime band a portare la musica indie italiana a un pubblico più ampio nella seconda metà degli anni ‘00, complici la vittoria dell’Heineken Jammin’ Contest e l’alta rotazione in radio e su MTV, i Canadians tornano dopo lo scioglimento del 2011 con alcuni importanti cambiamenti: non più un quintetto ma un trio formato dai soli Duccio Simbeni (voce e chitarra), Massimo Fiorio (basso) e Christian Corso (batteria) e 11 nuove tracce, caratterizzate dalle melodie immediate e dai muri di chitarre per cui la band veronese si era fatta conoscere.
Il disco si apre con “What I could be and I’m not”, con le chitarre che mettono in chiaro quale sarà il sound dell’intero lavoro, mentre viene narrato il passaggio tra adolescenza ed età adulta davanti a una partita di bocce in spiaggia. “To the End” racconta i primi amori mai dimenticati, tra melodie e arrangiamenti che rimandano agli Ash di “1977”. Sempre ragazze e amori non corrisposti sono al centro di “Girl from Outer Space” (girato online qualche mese fa come prima anticipazione), un po’ come se la band non fosse ormai formata da tre padri di famiglia ma da ragazzini dal cuore fragile. La passione per gli Appleseed Cast traspare in “It’s gone”, mentre con le successive “Sometimes” e “Dying for you” sono più chiari i nessi con il primo album dei Canadians, pubblicato più di 10 anni fa.  Con “Something broken” invece si ha un maggiore distacco con il loro passato: nato quasi per caso in sala prove, il pezzo mette in musica e parole tutte quelle giornate in cui se qualcosa può andare storto andrà sicuramente stortissimo. Il momento di pessimismo fortunatamente dura poco e “Jennifer Parker” ci riporta a sonorità più canadesi, con una dichiarazione d’amore a Claudia Wells, la Jennifer Parker di Ritorno al Futuro. Con “Charlie the Goose” torna un altro dei temi preferiti dei testi di Simbeni: la natura. L’incontro tra un pescatore e un’anatra precede un altro omaggio agli anni ‘80 in cui i componenti della band sono cresciuti: con “In my Dreams” viene celebrato l’amore per due film iconici di quel periodo, Explorers e Navigator. Il disco si chiude con “Epiphany Day”, racconto di una lenta agonia, in un crescendo che sembra non finire mai.
Registrato in Emilia Romagna, mixato a Verona e masterizzato a Brescia, il disco uscirà in formato digitale e in CD (in edizione limitata che non verrà ristampata) per Bello Records. Il titolo scelto è un omaggio all’ex chitarrista e fondatore della band Michele “Mitch” Nicoli, che dal giorno zero ha messo a disposizione non solo la sala prove ma anche una piscina fantastica sulle colline veronesi, e che ora ha scelto di dedicarsi ad altri progetti musicali.

Metal Sexual Toy Boy EP

Il mio nome è Tin Woodman.
Vengo da Wautah.
E sono un robot.
Sono stato creato il 17 maggio del 1986. Mio padre, lo scienziato, mi ha dato questo nome.
Mi chiamo così in omaggio a: Il meraviglioso Mago di Oz. Corretto. Autore: Frank Baum, 19 maggio 1900, edizioni George M. Hill, Chicago.
Mio padre, lo scienziato, amava la musica. La sua scienza era la musica. Pentagrammi, minime, semiminime, accordi, basso. Musica pop anni Sessanta e Settanta. Glam rock anni Ottanta. Ye. Boom. Queen Bitch. La la Clap Your Hands. Cream.
Mio padre lo scienziato amava, soprattutto:
Beach Boys *
Prince*
Run DMC*
Io sono un robot progettato e costruito per fare musica. Delete. Tin Woodman è il mio nome e sono l’uomo di latta della musica. Dopo la mia creazione a lungo ho aspettato il momento CTRL+ALT+VEG di compiere il destino a cui lo scienziato mi ha destinato e nel giorno propizio il mio corpo di latta è tornato alla luce. Corretto.
Nello Stato di Wautah, dal giorno della mia creazione, vivevo in felice armonia con altri robot. Tutti venuti alla luce per mano dei loro padri scienziati. Corretto. Prototipi. Corretto. NOVA. Propotipi tipitip tipitap costruiti per conto della NOVA Robotics e poi distrutti su ordine dell’esercito. Decrypt File: i loro nomi erano Numero5, Wall-E (Another Brick in The) e R2-D2.
La mia infanzia a Wautah con i miei amici robot e insieme a mio padre lo scienziato è stata bella. Corretto. Poi niente. Finito. Tutti distrutti dallo zio Sammy. Delete, Delete, Delete. Solo Tin Woodman è salvo.
Nascosto fra rottami slash carcasse slash pezzi di motori distrutti slash spazzatura ho preservato la creazione di mio padre lo scienziato e il mio cuore/cuore/cuore/cuore/cuore/cuore di registratore a nastro FOSTEX è rimasto intatto attraverso il tempo. E al momento stabilito sono arrivati a me nuovi amici, forse mandati dallo scienziato per compiere il suo progetto della musica. I loro nomi, che ho appreso nella lingua degli umanoidi, sono S.I.M.O.N.E.F.E.R.R.A.R.I e D.A.V.I.D.E.C.H.I.A.R.I. Così hanno detto.
Simone Ferrari: musicista, già frontman e leader dei Jules Not Jude, Brescia. Corretto. Davide Chiari: musicista, polistrumentista , fondatore degli Alley. Mantova. Corretto. Informazione riservata. Delete File.

Grazie al loro aiuto il progetto della musica per cui sono stato creato si è così compiuto. Corretto. Tin Woodman dello stato di Wautah oggi è ROCKSTAR badabum rarararara ROCKSTAR.
Molte chitarre, registratori, suoni e ragazze. A Tin Woodman piace la musica e le ragazze. E la preferita uomanoide della musica ha nome C.H.I.A.R.A.A.M.A.L.I.A.B.E.R.N.A.R.D.I.N.I. Corretto. Il mio amore invece ha nome Silver Girl. Alert. Overheating. Alert. Delet Informazione.
Mi chiamo Tin Woodman e vengo dallo Stato di Wautah.
Sono un robot. Adesso la mia musica racconta la mia storia.
Delete. Delete. Delete.

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In The Pot

“In The Pot” è l’album di esordio dei veneti Hit-Kunle: una trama fitta di influenze che vorrebbe poter prescindere dalle definizioni, ma a dover proprio scegliere i ragazzi identificano la loro musica come Tropical Rock. Le loro composizioni attingono dal mondo afro-latin, così come dal soul, dal rock e dal punk, per un risultato all’insegna di un groove secco eppure immerso in atmosfere calde ed energiche. Musica vibrante e fervida per la quale è stato scelto un nome difficile da decifrare senza spiegazioni: il nome della band prende origine dalla fusione tra il termine inglese “HIT” e la parola yoruba (un importante dialetto parlato in Nigeria e in altri stati dell’Africa Occidentale) “KUNLE”, e che dà vita al concetto che si potrebbe tradurre con “Il colpo che riempie abbondantemente la casa”. Dopo la realizzazione di un primo EP e una manciata di date sotto il moniker “ZODO’S”, agli inizi del 2016 avviene un cambio di formazione e conseguentemente anche di nome. Il nucleo fondamentale è ora composto dalla cantante/chitarrista e autrice dei brani Folake Oladun e dal batterista Marco Mason, mentre Hit-Kunle dal vivo diventa un trio con il bassista Massimiliano Vio. Con questa formazione la band viene selezionata per rappresentare il Veneto all’edizione 2017 dell’Arezzo Wave Love Festival. I brani di “In The Pot” sono interamente composti dalla giovane Folake Oladun, classe 1995, italiana di origini nigeriane, che nel progetto ha fatto confluire liberamente le anime musicali europea e africana e i suoi ascolti musicali, lavorando insieme ai due amici, cresciuti come lei nella zona tra Padova e Mestre, per creare un caleidoscopio in cui risuonano musiche di molte parti del mondo, in una fusione-rock sempre in equilibrio tra freddo e caldo, tra Nord e Sud. “In The Pot” prende il via con un brano che la band aveva già fatto girare in rete, in una versione precedentemente registrata: “May I Have Some?” apre letteralmente le danze con la sua ode alla carnalità del ballo, al desiderio di possedere l’attraente talento di muovere il corpo al ritmo del funk, quel magico tocco, arma di seduzione unica. “Acid Fruit”, primo estratto dal disco, con la sua atmosfera caraibica racconta di scelte sbagliate usando la metafora di un colorato frutto tropicale che si rivelerà inaspettatamente aspro, mentre “Slowdown” riflette sulla necessità di fermarsi ogni tanto per capire per chi si sta facendo quello che si fa, se per noi stessi o per gli altri. In “Bells” torna un segno più giocoso, grazie alla filastrocca funk spruzzata di psichedelia che prende ispirazione dal lavoro che ogni band fa in sala prove per dare vita alla propria idea di musica. Le successive “Share Your Love” e “Wildcat” vengono illustrate da Folake come il completamento della riflessione partita con “Slowdown” in cui si prende coscienza della necessità di fermarsi a riflettere sulla propria vita; poi si passa a “Share Your Love” in cui ci si apre a nuove possibilità, si parla di ricominciare da capo utilizzando la forza del sentimento, dell’amore universale; e poi si arriva a “Wildcat” che parla di come una volta superati i limiti che ci siamo autoimposti, si riesce ad essere sé stessi, ci si apre al mondo e si vive davvero “‘Cause it’s freaking, oh, the hell out of me! For it’s time for me to live, to pursue what I believe”. Si giunge così a quello che è forse il vertice dell’album in termini compositivi e ideali: “Colours” rappresenta perfettamente lo spirito che anima gli Hit-Kunle, fondendo meravigliosamente il rock con i suoni del sud del mondo, iniziando come un pezzo post-punk e finendo con un assolo che è una piccola catarsi afro-psichedelica. “Colours” è la visione della musica dei nostri, uno spazio interiore in cui tempo e luogo non esistono più, in cui si viene trascinati dalla forza del ritmo, della creatività, dell’abbandono di mente e corpo. L’album si chiude con la più riflessiva e malinconica “He Was So Sad” e con la sincopata, agrodolce e graffiante “Pleasing Vice”, dal sapore più blues in cui si alternano distorti assoli di chitarra e delicate armonizzazioni vocali. L’album è stato registrato, mixato e masterizzato da Franz Fabiano, che la band indica come un elemento fondamentale per l’elaborazione delle idee iniziali, reale mente ideativa e attiva nelle scelte stilistiche e sonore del disco. Altro contributo fondamentale è stato dato da due amici nonché eccellenti musicisti: presenza costante in tutti i pezzi del disco é Alejandro García Hernandez che, grazie al suo tocco latin, aggiunge colore alla sezione ritmica principalmente con le congas, ma alla fine suonando praticamente qualsiasi cosa si possa shakerare e/o percuotere. Inoltre “Colours” vede la speciale partecipazione di Emanuele Lombardini, batterista di formazione, che con il suo intervento di bongos aggiunge movimento psichedelico e una ritmica serrata alla seconda parte del brano. “In The Pot” uscirà in CD e digitale il 15 settembre per Bello Records, label che ha pubblicato il fortunato esordio di un’altra band guidata da una giovanissima cantante e chitarrista veneta: gli Any Other di Adele Nigro.

The Greyout

Dopo aver pubblicato un EP omonimo di quattro brani nel 2014 e aver aperto i live di band come ZEUS!, Morkobot, Necrodeth, Primal Fear, Nero Di Marte e altri, la band lombarda dei Kingfisher, caratterizzata dalla presenza di tre bassi e nessuna chitarra, arriva finalmente al debutto sulla lunga distanza con “The Greyout”, in uscita per Bello Records a Gennaio 2016. Ed è un disco che colpisce per lucidità della scrittura, potenza e precisione strumentale e credibilità di livello internazionale. “The Greyout” è caratterizzato dalla sperimentazione sulla distorsione dei tre bassi (Davide Scodeggio ed Emanuele Nebuloni coi loro bassi effettati e Alessandro Croci), senza sacrificare per questo la costruzione di vere e proprie canzoni piene di atmosfera, nel solco di una tradizione heavy che vede i suoi migliori esponenti in band come Deftones, A Perfect Circle e Queens Of the Stone Age. Negli 11 brani contenuti in questo primo album effetti, distorsione e melodie restano sempre in equilibrio simbiotico, supportati dalla ritmica percussiva e ipnotica su cui si inserisce il cantato ruvido e potente ma capace di stendersi anche più morbidamente di Renato Di Bonito, che ricorda spesso Maynard James Keenan, in altri momenti Richard Patrick dei Filter. I Kingfisher entrano spezzando mascelle, proprio come il devastante destro di un giovane Mike Tyson, nell’iniziale trittico che lascia senza fiato formato da “Red Circle”, “Sentient” e “Worm Tongue”, dimostrazione di una forza bruta ma chirurgica, una violenza fredda e razionale seguita dal cupo raid ritmico di “The Greyout”, in cui i riff di basso vanno a sincronizzarsi con il rullante, mentre dalle profondità emerge il wah-wah applicato alle quattro corde. A differenza di altre band italiane composte da “soli” due bassi (Morkobot), i nostri sfoggiano una potenza di fuoco che gli permette innalzare un temibile wall of sound, una parete scoscesa i cui unici appigli sono le melodie che pure emergono, quando il moto ondoso si abbassa, come nella splendida suite composta da “Oneiric” e “Eleven”, nella cui trama si intravedono articolate strutture para crimsoniane (periodo The Power To Believe) mentre la voce di Renato ammicca più chiaramente a quella di Keenan. Viene poi spontaneo pensare a Zu e ZEUS! per i dialoghi fra basso e batteria impegnati in una caccia senza tregua in brani come “Bizarre” e “Relentless”, mentre la conclusiva “Mandàla”, take quasi interamente strumentale (arricchita dai vocalizzi della splendida voce di Stefania Nebuloni), piena di chiaroscuri e fini inserti del basso, deflagra come una supernova sulla coda, con il ruggito del basso incredibilmente distorto. “The Greyout” è stato scritto a cavallo tra 2014 e 2015 e registrato e mixato alla Sauna con Andrea Cajelli nell’estate del 2015. Il master è stato affidato a Giulio Ragno Favero. Creatura mutante fatta di molte teste a quattro corde, che si alternano mostrando una natura proteiforme, i Kingfisher vincono grazie alla costruzione stratificata di un progetto sonoro d’incredibile potenza ma molto attento al formato canzone classico. Eyes Wide Open verrebbe da dire, in omaggio al Re Cremisi e come monito per l’ascoltatore, punto d’impatto in cui i Kingfisher rilasciano tutta la loro energia.

Silently. Quietly. Going Away

E adesso cosa faccio, smetto di suonare? Questo si dev’essere chiesta un po’ spaesata la ventunenne Adele Nigro un anno fa, provando a mettere insieme il puzzle di un passato prossimo appena imploso con le Lovecats e un futuro tutto da scrivere. E invece, come nelle storie che vanno a finire bene, Adele non smette di suonare, alza la posta in gioco e comincia a trovarsi delle date da sola, portandosi in giro la chitarra acustica e alcuni pezzi nuovi che le giravano in testa. Nasce così il progetto Any Other: parte dal rimettersi in gioco, dal piazzare al centro le proprie canzoni ritrovandosi un anno dopo con un disco in uscita, “Silently. Quietly. Going Away”. Dieci brani che raccontano chi è Adele, cosa le succede, cosa le piace e cosa no, cosa ascolta e cosa sa fare con una chitarra in mano. Così l’iniziale “Something” diventa il ponte ideale tra quello che era e quello che è adesso, da cui partire per entrare in un mondo fatto di chitarre e piccola poesia, un indierock che sfiora il college delle origini – quello caro ai Modest Mouse, ai Built To Spill, a Waxahatchee – cantato con la sfacciata sicurezza che ricorda la giovane Alanis Morrissette. Un disco che scorre con assoluto piacere per quaranta minuti, con la voce di Adele a dipingere storie dalle tonalità diversissime, che parlano di distacchi difficili (“Gladly Farewell”), o di paesaggi immaginifici suscitati dallo studio della poesia di Coleridge (“Blue Moon”). Perché Adele ha talento, sensibilità ed una incredibile solidità per i suoi ventuno anni appena compiuti: doni preziosissimi, che permettono di cominciare a vedere il mondo per quello che è davvero ma di non farsi comunque prendere troppo male: così canzoni come “His Era” o “365 Days”, pur percorse da un filo di malinconia, non perdono mai la loro freschezza. E lo stesso vale per le chiacchiere con la propria parte razionale (“Roger Roger, Commander”), anche nei momenti più complicati (“I will try to keep the guilt separated from my temptation of blaming it all on me” in “5.47 p.m.”). Ma qui non c’è solo Adele: canzone dopo canzone, arrangiamento dopo arrangiamento, i giovanissimi Erica Lonardi (non ancora ventenne) e Marco Giudici sono diventati parte imprescindibile degli Any Other, ormai un trio a tutti gli effetti, capace di offrire soluzioni diverse andando oltre il classico pattern chitarra-basso-batteria (come in “Teenage”, in cui Marco suona anche il synth), o dando respiro a ogni dinamica e a ogni tema, compresa l’unica canzone d’amore dell’album, “Sonnet #4”. Si finisce con “To The Kino, Again”, appoggiata su una base di basso e batteria molto serrata che di colpo rallenta, si calma, per poi crescere ancora sul mantra finale, lo stesso che dà il titolo a questo esordio. Due giorni intensi per registrare tutto, a Ravenna, un po’ di tempo in più per mixare il disco a Milano e poi il master di Andrea Suriani (I Cani, Capra, My Awesome Mixtape): il risultato è qui e ha dell’incredibile, se si pensa alla loro giovane età e alla grande autonomia con cui i ragazzi hanno realizzato il disco, a dimostrazione che aver continuato a suonare alla fine è stata una scelta felice. Così felice da essere avvallata dalla nuovissima Bello Records che pubblicherà “Silently. Quietly. Going Away” a settembre. Non resta che aspettare fiduciosi; fino ad allora Adele continuerà quel puzzle che oltre un anno fa sembrava un’impresa titanica e che, anche con l’aiuto di Erica e Marco, finalmente ha preso la sua bellissima forma.