Quella dei batteristi capaci solo a pestare i tamburi è una delle storie più vecchie del mondo, una distorsione che li fa apparire da sempre meno creativi e affinati di quello che sono in realtà. Nelide Bandello è la dimostrazione che invece no, che ogni tanto un batterista imbraccia la chitarra per creare la propria musica, mette sul piatto esperienza e immaginazione (e pure una discreta dose di follia, perché no?) e arriva a firmare un disco a proprio nome. “Bar Tritolo” è questo, terzo lavoro discografico (dopo un album e un ep a nome Leibniz) di Nelide Bandello, musicista impegnato da anni in svariate formazioni (tra le varie Lecrevisse, Il Generale Inverno, Bottin, Patrizia Laquidara, Rocky Wood), segnato da un insieme di ascolti disparati e da un rapporto d’amore e lavoro con la musica d’improvvisazione di area jazz. Proprio l’attitudine all’improvvisazione porta come risultato queste undici composizioni strumentali, permeate dell’assetto instabile del jazz ma allo stesso tempo di quella solidità che solo la concretezza del rock sa trasmettere. Così si possono trovare episodi più lineari, come l’apertura “There Will Never Be Another Youth” o la più claustrofobica “Growl”, altri molto più soffusi e inafferrabili come “We Pod”, “Riscolum”, “Go Fish It” o “Licmophora”; scorrono brani che avvicinano le due inclinazioni (come “El Toro”), altri che giocano con elementi di elettronica (“Svegliati, cazzo!”). Ed è proprio la continua contaminazione, sia nell’attitudine che nel gesto tecnico, a rendere “Bar Tritolo” un disco intrigante, inaspettato nell’esecuzione e sempre mutevole. Nelide Bandello e i suoi compagni d’avventura – Enrico Terragnoli (chitarra e podophono) e Piero Bittolo Bon (sax alto, baritono e clarino), con l’aggiunta del basso di Stefano Senni su “Plot Device” – hanno voluto far emergere un’attitudine più sporca, quasi grunge, applicandola però a delle composizioni che in fase di registrazione conservavano ancora molti spazi e altrettanti vuoti da riempire al momento, ad istinto, senza troppe prove preliminari, per sentire solo a giochi fatti l’effetto che fa. A questo si aggiunge la ricerca di un suono per niente jazz, motivo per cui i nostri sono andati a rifugiarsi in uno degli studi di registrazione più affermati d’Italia, quella Sauna di Varano Borghi sempre più punto di riferimento per chi ha in testa un certo suono, grazie alle sapienti macchine e orecchie di Andrea Cajelli. Si avverte tutta la fisicità di questa scelta anche in pezzi la cui spina dorsale è più nascosta e difficile da individuare (“Rev Donut” e soprattutto “Bar Tritolo”), dove il virtuosismo tipico del jazz diventa meno fumoso e più inquadrato, più solido. Dove le sovraincisioni non servono, dove l’editing è irrilevante, perché altro è l’obiettivo di Bandello: riassumere in un unico linguaggio e in una compatta per quanto eclettica creazione tutta la musica masticata in 20 anni di attività. Insomma, “Bar Tritolo” è un disco coraggioso, stralunato, scritto ma improvvisato, jazz ma rock. Non è una cosa da prendere a cuor leggero, perché i batteristi, nonostante tutte le storie che circolano, non vanno mai sottovalutati.
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