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Necroide

Se 666 è il numero della Bestia, quella bestia probabilmente è un insetto. Un insetto che scava la pietra. Con “Necroide” l’evoluzione continua e non c’è modo di arrestarla. Se con “Quintale” (2013) il legno si era fatto pietra, virando a sorpresa verso qualcosa di simile al Metal, ora i Bachi Da Pietra si rivestono di una spessa corazza opaca e quel metallo si fa nero. Il sesto album in studio è un ritorno ancor più profondo alle radici musicali che segnarono la loro adolescenza (molti anni prima del Blues) e che coincisero grosso modo con la scena Heavy Metal dei primissimi anni Ottanta. Eppure, anche in questa ennesima trasfigurazione, quelle dei Bachi restano canzoni d’autore. La nuova scommessa di Giovanni Succi e Bruno Dorella è dare vita a un Frankenstein musicale, qualcosa di apparentemente paradossale e inimmaginabile, una sorta di cantautorato Black Metal, attraverso brani in cui risuoni, mascherata in quel nero, anche la pulsazione vitale della Black Music, contrapposta a quella eternamente e felicemente mortifera del Metal. Nei fatti, nella carne e nell’esoscheletro dei Bachi, queste passioni apparentemente antitetiche convivono. Del resto l’archetipo del chitarrista Metal fu Hendrix (nella sostanza un chitarrista Blues) e tutte le derive successive ed estreme del Rock pendono ancora oggi dai suoi labbroni. In quest’ottica, in qualche modo, il metallo nasce nero. La stessa compresenza di opposti che ha ispirato la composizione musicale si ritrova nella materia dei testi. La necrofilia e l’orrore (temi topici e stereotipati del Metal, e i titoli prendono quasi tutti spunto da luoghi comuni del genere) si trasfigurano concretamente in “Necroide”, dipingendo un affresco vivido e grottesco del presente: storie, personaggi, eventi, concreti scenari distopici di un futuro così prossimo da essere a portata di orizzonte. L’iniziale “Black Metal Il Mio Folk” è la prova che anche il Metal è ormai a tutti gli effetti una musica popolare attraverso la quale poter raccontare il nostro spaventoso presente; mentre la pulsazione vitale della Black Music, quel calore che si fonde col metallo estremo, esplode vivida nella successiva “Slayer & The Family Stone” senza possibilità di scampo. Così Frankenstein si muove, si alza e fa l’headbanging, rendendo tributo in “Fascite Necroide” a Jeff Hanneman, il chitarrista degli Slayer morto nel 2013 per questo morbo contratto dal morso (caso vuole) di un insetto tropicale. Poi la creatura prende l’Africa di Ali Farka Tourè e Bombino e la sporca con le ciminiere di Birmingham nella brechtiana “Tarli Mai”, tra i lucidi deliri ideologici dell’uomo della strada. Con “Voodooviking” si lancia in una cavalcata potentissima in stile Epic Metal che parte dai fiordi e si arena su una spiaggia caraibica (il testo è la riduzione in due strofe di un poema haitiano -“Yelida” di Tomàs Hernandez Franco – ritrovato in una “Antologia di Poeti Negri” edita in Italia nel 1954). Se non bastasse, è “Apocalinsect” ad ampliare ulteriormente e drasticamente i confini entro cui Succi e Dorella hanno deciso di avventurarsi, spingendoci in un fun(k)ebre viaggio elettrico: nell’apocalisse di un insetto c’è posto anche per Prince e Cameo? La risposta è sì. La divertente fine di tutto, in un testo post-mortem. Allo zenith del disco s’irradia “Virus Del Male”, quella che nel vocabolario dei nostri Insetti può essere classificata come ballata: un’immersione nella geografia emotiva dell’adolescenza di Succi, che partendo una storia vera – raccontata in un meraviglioso testo rap – rende anche un tributo al miglior Grunge, chiudendo così il cerchio di una generazione: “Eravamo rumore”. E il rumore arriva, senza compromessi, nel vortice Thrash di “Feccia Rozza”, con un finale di frastuono quasi Gabber, per poi frenare (o franare) di colpo su “Cofani Funebri”, morbosamente Doom. “Sepolta Viva” è l’unica traccia che comprende anche una chitarra acustica, che si gonfia fino ad esplodere per poi ricomporsi, nella ripetizione ossessiva di un “cammina” finale che si trasforma da invito a mantra cristologico. La morte era solo apparente? La morte serve a nuova vita? Non c’è tempo per le risposte, l’ultimo brano di “Necroide” taglia corto e parte come una scarica elettrica: “Danza Macabra” sa di Punk Metal primi Motorhead, che a pensarci sembra impossibile, con un riff assolutamente killer. E ti lascia così, un minuto e mezzo dopo, con il disco che gira a vuoto e tu che controlli di essere ancora tutto intero. Questo è “Necroide”, l’ennesima mutazione dei Bachi Da Pietra. Un disco denso, un ritorno a un tempo remoto che coincide con un possibile futuro. “Per noi ultra quarantenni vecchi e marci di oggi – dichiarano i Bachi – quei primi anni Ottanta erano i bei tempi, e prima o poi, all’approssimarsi della fine, si torna alle origini, mischiando tutto insieme. Così nasce ‘Necroide’. La scommessa con un piede nella fossa di chi non ha niente da perdere.”