Nati dodici anni fa con una formazione primigenia di cui attualmente sono rimasti solo due membri, gli emiliani My Gravity Girls tornano dopo quattro anni dall’ultimo episodio discografico. Un’attesa che trova la sua giustificazione in un periodo difficile, che ha visto in diversi momenti all’orizzonte la messa in discussione dell’esistenza stessa della band, prospettiva a cui il leader Mattia Bergonzi ha infine reagito con un ritrovato amore per la musica, per la sperimentazione e per la ricerca sul suono. La rinascita parte dall’ascolto di un disco in particolare, FLOTUS dei Lambchop, capace di riaccendere la scintilla dell’interesse per il lavoro in studio, al punto tale da averlo spinto a costruirsi uno studio privato in cui poter sperimentare in assoluta libertà. La realizzazione dello studio, compiuta in un anno, è stata seguita dalla nascita di un nuovo assetto della formazione – composta ora dai due membri originari del gruppo (Mattia e il batterista Pietro Ruggeri) e da Francesco Carlucci (tastiere e sintetizzatori) e i fratelli Claudio (basso, sintetizzatori, cori e piano) e Simone Calandra (batteria) – e accompagnata dalla raccolta di nuovi strumenti, anche mai utilizzati prima da Mattia per comporre: “Passavo le notti a casa a registrare loop vocali che trasformavo in synth oppure registrare un giro di chitarra per poi cercare di distruggerlo con effetti digitali fino a renderlo irriconoscibile.” Molte tracce ad esempio sono nate partendo dai beat elettronici oppure da quelli creati con la batteria, ci sono sintetizzatori derivati dai campioni vocali processati, ispirati da un lavoro sulla spazialità del suono attraverso vari tipi di riverberi. Il risultato è un dream-pop cupo ma allo stesso tempo arioso, che oscilla tra atmosfere eteree e sospese e trasparente emotività.
Da questo punto di vista l’apertura affidata ad “Intimacy” è un’ineccepibile dichiarazione di intenti: un brano oscuro, dove al testo ermetico e malinconico si contrappone una parte musicale nata giocando con strumenti ed elettronica (“il drone quasi rumoroso che fa da base alla melodia l’ho creato una sera in studio facendo il re-amp di un suono di basso di un synth attraverso il banco analogico e facendolo andare in un amplificatore da basso. Fatto quello ho messo davanti all’amplificatore del basso due piatti enormi della batteria e con due microfoni ho registrato la rifrazione delle vibrazioni del basso sui piatti. Nel frattempo con un effetto cambiavo la nota modificando il pitch.”). Nella successiva “Forests” la trama ambient viene progressivamente impalcata su un beat regolare di batteria. Il synth che fa da base alla canzone è stato costruito con un campione vocale di Mattia che suona all’unisono una nota. Anche in “Wide Eyes” il synth che marcia incessantemente è stato creato da un campione vocale, mentre la batteria elettronica storta è stata tutta suonata e non programmata da Pietro su una Roland degli anni ’80. Il brano parla di quei momenti in cui non si riesce a prendere sonno perché i pensieri ti sovrastano e ci si rende conto che nemmeno la luce calda dell’alba del mattino può aiutare ad andare avanti. “Daybreak” è un gioiello di pop elettronico costruito intorno al suono di un synth diventato una standard ormai, nonostante sembri un giocattolo: il Tenage engineering OP1. Mattia racconta “ho saputo della sua esistenza leggendo un’intervista a Pharrel e poi successivamente leggendo un’intervista a Justin Vernon in cui spiegava come avesse sostituito la chitarra con quello strumento. E alla fine è stato così anche per me, man mano che andavo andavo avanti a suonarlo ne comprendevo le potenzialità. La maggior parte delle canzoni derivano da loop creati di notte in cuffia sul divano con l’OP1.”.
“Berlin”, dedicata alla città in cui è stato scritto il testo, è costruita sulla chitarra, registrata per intero per poi essere looppata come se fosse stata suonata da un computer e ripartisse da capo ogni volta. Anche i suoni che entrano ed escono, che possono sembrare dei synth, sono nati dalla stessa registrazione e poi processati con diversi riverberi sovrapposti. I beat sono stati fatti con la Roland TR 808 e a metà troviamo sovraincisioni di chitarre acustiche, fatte suonare al contrario e riverberate, mentre i synth dal sapore vintage sul finale sono stati suonati da Aldo Bergonzi, zio di Mattia. I synth la fanno da padrone anche in “Blank Space”, dove grazie al riverbero donano ulteriore spazialità all’intero suono. Il racconto di come è nata “Schitzophrenia” la affidiamo alle parole di Mattia “Questa è una canzone particolare. A volte sono incline a fissarmi su alcuni argomenti e ho fatto un periodo in cui m’informavo molto sulle malattie mentali. Guardavo un sacco di documentari, e un giorno su YouTube ho trovato questa intervista ad un malato di schizofrenia degli anni 50. Ero molto attirato dal suo tono di voce e quindi ho pensato di provare a registrarlo direttamente con il microfono dell’OP1 dalle casse del computer. Poi ho iniziato a suonare il beat sempre con l’OP1 e a suonarci sopra il synth che fa la melodia. In studio abbiamo ri-registrato tutta la batteria e aggiunto a metà un pianoforte scordato. Il testo parla dei momenti in cui la mente sta per crollare e ce ne si rende conto ma non si riesce a far nulla per fermare quella caduta libera.”. “Family Life” è un brano scarno che parla dei contrasti e delle delusioni che portano ad allontanarsi nella vita familiare o di coppia; quando non esistono più punti d’incontro e si è talmente lontani che anche i momenti passati insieme sembrano gelidi come le peggiori giornate invernali.
Un certo senso di sconforto esistenziale si irradia anche nei due successivi pezzi, la più acustica “Five AM” con la sua coda di batterie distorte, e “Silver Lake” costruita su dei loop ossessivi, proprio come i ricordi che vorresti dimenticare. “May” è il pezzo più vicino alle sonorità presenti nei primi lavori della band, pur essendo filtrata da molta elettronica ed effetti digitali, con riverberi lunghissimi a cui è stato aggiunto un vecchio organo farfisa. L’album si chiude con la sognante “Ann”, costruita su un arpeggiatore creato con un synth che si chiama Organelle che le dona una sonorità al limite fra il gospel e i canti rurali americani dei carcerati nei primi del 900.
Prodotto, registrato, mixato e masterizzato interamente dalla band nel proprio nuovo studio (il The Catcher appena fuori Parma), “I Miss Something and Miss Everyone” uscirà il prossimo 25 settembre per Weakmusic, label fondata dagli stessi My Gravity Girls. L’album arriva a compimento di un tratto di strada sofferto ma fertile, terminale e allo stesso tempo punto di nuovo avvio, tanto più che la band, grazie al proprio studio – man mano arricchito da sempre nuovi strumenti e diavolerie – e alla neonata etichetta, si augura di aprire anche una fase di produzione e pubblicazione di progetti musicali di altri artisti.
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