Allt Är Intet

“Allt Är Intet” significa “Tutto è nulla”, titolo appropriato per il secondo album una band che si è scelta il nome ultra-nichilista di The End. Eppure è un’espressione dotata di una certa ambiguità: perché possiamo scegliere l’interpretazione più cupa e disperata o quella associabile ad una visione filosofica in cui ogni cosa dell’universo è parte del tutto. E probabilmente entrambe le conclusioni si rivelano adatte ad “Allt Är Intet”, secondo full-lenght del quintetto scandinavo, in uscita il 13 novembre per RareNoise Records. Rispetto al primo disco ritroviamo il sassofonista svedese Mats Gustafsson (Fire!, The Thing), il sassofonista norvegese Kjetil Møster (Møster!, Zanussi 5), la vocalist etiope Sofia Jernberg (Fire! Orchestra, PAAVO), il chitarrista norvegese Anders Hana (MoHa!, Ultralyd) e come new entry il batterista norvegese Børge Fjordheim (Cloroform) che ha preso il posto del batterista dei Deerhoof Greg Saunier, presente dietro le pelli nell’esordio del 2018 “Svarmod Och Vemod Är Värdesinnen”. Chiunque abbia familiarità con il lavoro di questi artisti conosce la potenza che sanno esprimere e la capacità di estendere i confini della loro musica fino ad estremi assai brutali. Il secondo capito di questo progetto, arrivato dopo due anni di continua esplorazione insieme, trova uno straordinario equilibrio tra vorticosa ferocia e una bellezza più stratificata ed ipnotica. “In questo disco tutto si è compenetrato”, racconta Gustafsson pieno di entusiasmo “È ancora musica ruvida e oscura, ma credo che l’aspetto lirico abbia avuto uno spazio completamente diverso. La band è composta da un incrocio di persone molto interessante e il mix di riff brutali e melodia free jazz che abbiamo raggiunto è per me un sogno che diventa realtà. Mi piace la musica semplice, primitiva, ma questa ha anche molti altri strati complessi”. “Quando abbiamo registrato l’esordio avevamo fatto solo tre concerti prima di andare in studio”, ricorda Møster “È stato un incontro molto caotico e credo che l’album lo rifletta. Ora ci siamo conosciuti molto meglio e siamo cresciuti insieme e ho sentito che in studio siamo diventati un’unica entità”.
I cinque musicisti si sono riuniti nel novembre 2019 nello studio norvegese Elektrolüd con il produttore Jørgen Træen. Il fatto che durante quella sessione avessero scalato nuove vette è stato rivelato già a marzo coni “Nedresa”, un EP di due brani uscito per RareNoise. Sebbene derivi dalla stesso periodo di registrazioni, “Allt Är Intet” è un risultato dalla sua precisa e coesa personalità, capace di generare un’atmosfera tesa e coinvolgente per tutti i suoi 41 minuti di durata. Fatto insolito per questi avventurosi musicisti, quasi sempre dediti all’improvvisazione o alla composizione originale, l’album è arricchito da due inaspettate cover. Si apre con una versione straziante di “It Hurts Me Too” della cantante folk del Greenwich Village Karen Dalton: una delle canzoni preferite del defunto Harald Hult, mentore di Gustafsson sia in campo musicale che letterario. Proprietario del rinomato negozio di dischi di Stoccolma Andra Jazz e fondatore dell’etichetta Blue Tower Records, Hult era solito suonare questo brano da lui molto amato, in ogni occasione, e lo stesso Gustafsson si assicurò che venisse suonata al funerale di Hult nel 2018. Le cicatrici psichiche di cui parla il testo della Dalton sono particolarmente evidenziate nella struggente performance di Sophia Jernberg, la cui voce si stende sul tappeto creato dall’langeleik, una cetra norvegese qui suonata dal chitarrista Anders Hana. Per quanto riguarda l’altra cover, la troviamo alla fine del disco: l’album si conclude con l’esplorazione di un brano del grande sassofonista americano Dewey Redman, “Imani”, tratto dal suo classico “The Ear of the Behearer”, uscito nel 1973 su Impulse!. La traccia sembra uscire da un vuoto primordiale, come una vorticosa cacofonia di cinguettii vocali, ringhio e grugniti che si mescolano a raschietti e flauto svolazzanti. Gustafsson nutre grande ammirazione per Redman: “Dewey è un musicista profondo ed è stato anche un grande compositore. Meriterebbe maggiori riconoscimenti, quindi ho ritenuto importante portare la sua eredità all’attenzione degli ascoltatori di oggi”.
“Dark Wish” di Gustafsson è dedicata ad un pioniere del jazz, il pianista svedese Per Henrik Wallin. Influente in Europa ma poco conosciuto negli Stati Uniti, nel corso della sua vita Wallin ha fatto da ponte tra le generazioni e gli stili della scena jazz svedese, fornendo le prime opportunità a Gustafsson e al suo giro sperimentale. “Per Henrik proveniva fondamentalmente da Monk e da quella tradizione”, spiega il sassofonista. “I suoi amici e colleghi pensavano che fosse pazzo a mettersi a fare cose con me e con il batterista Kjell Nordeson, giovani e tutti presi dal free jazz, ma lui aveva sentito qualcosa in noi che gli piaceva. Mi ha davvero insegnato come interagire e fidarmi dei colleghi musicisti. Guardava la vita in modo piuttosto cupo, ma aveva un grande senso dell’umorismo, quindi questo è un tentativo di celebrare la sua eredità”. Importante è il contributo di Møster all’implacabile e ritmicamente intricata “Intention and Release”, che Gustafsson definisce “uno dei pezzi più strani che abbia mai suonato in vita mia”. Mentre Jernberg intona la melodia ricorsiva del sassofonista in un’ondata di trasporto rituale, la band ondeggia in una marcia funerea, inesorabile ma imprevedibile. “La canzone parla di come la stessa cosa possa significare cose molto diverse per persone diverse”, spiega Møster. “Ho sempre giocato con gli spunti ritmici ma questa è stata molto impegnativa mentre registravamo io ho iniziato a sentirmi molto stressato e a sudare sempre di più, finchè poi, all’improvviso, è andato tutto a posto. Spesso ci vuole uno sforzo per superare qualcosa di impegnativo, ma se ci provi abbastanza a lungo e vuoi davvero che qualcosa funzioni, alla fine funziona”. Gustafsson ha scritto il testo della title track, composta da Hana “Anders tira sempre fuori i migliori riff e groove”, dice Gustafsson. “Il suo background è nel grindcore e nel metal, ma è anche profondamente appassionato di musica folk scandinava. Così porta in dote sia la cruda brutalità del grindcore sia una sorta di fragilità melodica”. Hana ha anche composto la quinta traccia “Kråka. Rörde Sig Aldrig Mer”. Il titolo è tratto dal poeta britannico Ted Hughes e la musica è costruita intorno a un riff di chitarra che si trasforma in un vero e proprio rullo compressore. “Abbiamo tutti gusti variegati e polarizzati e in diverse direzioni”, ammette Møster. “Mats può suonare estremamente sottile e articolato, ma può anche essere una tempesta”. Sofia ha un’anima e una presenza incredibile, e sa cantare in modo anche molto selvaggio. Abbiamo tutti dei lati molto opposti in noi, ma riusciamo a riunirli in un modo che fa bene a tutti”. L’entusiasmante equilibrio di influenze diverse presenti in “Allt Är Intet” mette in luce una formazione unita, coesa e dalla creatività senza limiti.