Draugr

Mentre il termine giapponese Obake (お化け) significa ‘cosa che cambia’, o ‘creatura che muta la propria forma’ o più generalmente, ‘fantasma’, per il titolo del terzo album gli Obake hanno scelto “Draugr”, parola di origine indoeuropea che designa appunto una ‘creatura che ritorna dai morti’. In questa sovrapposizione di concetti, “Draugr” rappresenta contemporaneamente sia un ritorno alle origini sia una purificazione nel suono del gruppo. La compattezza e coerenza formale di nome e titolo riflettono l’equilibrio finalmente trovato nella formazione, nella quale si è fatto spazio – prima dal vivo nel 2015 e ora in studio – il poliedrico batterista Jacopo Pierazzuoli (membro dei Morkobot, King’s Of Fire). La sezione ritmica è completata da un pezzo da novanta come Colin Edwin (Porcupine Tree, nonché membro dei Metallic Taste Of Blood con Eraldo Bernocchi e membro degli O.R.k con Lorenzo Esposito Fornasari), mentre alle chitarre e alla voce troviamo appunto Lorenzo Esposito Fornasari e alle chitarre baritone Eraldo Bernocchi, fondatore del progetto. La molteplicità degli incroci artistici fra i membri di Obake ha permesso al gruppo di sviluppare un suono tanto estremo (doom e grindcore) quanto meticcio (spiccati elementi di ambient e jazz e sfumature di rock progressivo e noise); il suono della band ci riporta alle origini del rock, nutrendosi di una moltitudine influenze che vanno dai Popol Vuh agli Ashra Tempel, attraverso Slayer, Sunn O))), Melvins e Coil. Il disco è nato da un lavoro decisamente orientato all’improvvisazione, partendo da cinque giorni di session svoltesi a all’Igloo Audio Factory con la supervisione di Raffaele Marchetti a fine 2015. Nel corso dei mesi successivi LEF e Bernocchi hanno ripreso in mano il materiale registrato per arrangiarlo, creare strutture, scrivere i testi, aggiungere le voci e mixarlo (questa ultima parte al ‘the place’ a Castagneto Carducci). Il mastering è stato curato da Mike Fossenkemper al TurtleToneStudio di NYC. Come in passato i pezzi sono nati in modo naturale per poi giungere alla definizione di brani molto più strutturati che nei due album precedenti, così come i testi – scritti a sei mani da LEF, Bernocchi e Colin Edwin – sono più visionari e più personali e assumono uno spessore proprio, mentre negli album precedenti erano utilizzati più come ulteriore strumento musicale.