I Hate Work

Quando all’inizio degli anni ’00 Mike Pride si ritrovò improvvisamente in tour in Europa come batterista degli MDC non era un fan della leggendaria punk band dato che, in qualità di devoto dell’hardcore straight-edge, aveva una certa diffidenza nei confronti di questa forma di punk più mainstream e meno disciplinata. Vent’anni dopo Pride si rivolge al catalogo della band come fonte di standard jazz nel suo nuovo album “I Hate Work”. In uscita il 19 novembre via RareNoise Records, “I Hate Work” trae il suo materiale esclusivamente dall’iconico album di debutto degli MDC del 1982 “Millions of Dead Cops” in cui Pride e i suoi compagni trasformano il punk martellante degli MDC in un jazz acustico ricco di swing. Per l’occasione ha arruolato il pianista Jamie Saft e il bassista Bradley Christopher Jones, entrambi maestri che hanno già reinterpretato in chiave jazz una vasta gamma di musica pop e rock, e come ospiti speciali Mick Barr (Ocrilim, Krallice), JG Thirlwell (Foetus), Sam Mickens (The Dead Science) e il frontman di MDC Dave Dictor. Pride ha lasciato gli MDC nel dicembre 2004 dopo due anni di tour e la registrazione dell’album “Magnus Dominus Corpus”, ma ha mantenuto una stretta relazione sia con il cantante Dave Dictor che con il chitarrista/cantautore Ron Posner. Non molto tempo dopo, ha iniziato a incorporare le sue esperienze punk e le sue radici hardcore in progetti “jazz” come From Bacteria To Boys e Pulverize the Sound. “Quei progetti riflettevano davvero l’idea di musica popolare che mi piaceva”, spiega Pride. “Volevo prendere brani dalla mia storia musicale e ho iniziato a pensare a modi per incorporare musica più aggressiva nello stesso modo in cui certi brani pop sono diventati standard jazz. Così sono arrivato a pensare di provare a fare qualcosa con questi brani degli MDC”.
La particolarità dei brani di “Millions of Dead Cops” fu una conseguenza del modo in cui fu registrato, una maratona, di un’unica sessione senza pause caratterizzata dalla vertiginosa velocità. Quando, due decenni dopo l’uscita del disco, Pride si ritrovo a doverlo suonare dovette trascrivere ogni battuta persa e ogni ottava nota mancata; si ritrovo a dover suonare leggendo gli spartiti per il suo primo di tour anno con la band, una pratica a dir poco singolare nel mondo punk che lo rese ancora più caro ai suoi compagni di band. L’attenzione ai dettagli esercitata allora ha pagato quando è arrivato il momento di rivisitare quei pezzi per “I Hate Work”. “C’è molta carne sulle ossa di alcuni di questi brani”, dice Pride. “All’inizio credevo che avremmo potuto semplicemente suonarli molto velocemente e in modo un po’ pestato, che è probabilmente ciò che la gente si aspetterebbe. Ma ho pensato che sarebbe stato ancora più figo rallentarli, trovare progressioni di accordi che non fossero le solite cose I-IV-V, e reimmaginare le melodie che Dave potrebbe cantare se il tutto non stesse accadendo ad un ritmo forsennato e lui fosse in grado di cantare davvero”. Questo approccio è l’esatto opposto di quello che a Pride veniva chiesto di fare quando suonava negli MDC, quando l’obiettivo sul palco era quello di tentare la versione più veloce possibile di ogni canzone. Il record è arrivato una sera ad Amsterdam, quando la title track di questo album, “I Hate Work”, è arrivata a 24 secondi, quasi la metà del record precedente. Per la sua interpretazione di chiusura dell’album nella presente registrazione, la canzone è allungata in un crooner da nightclub di 8 minuti, con Dictor tira fuori il suo Sinatra interiore (anche se forse ci ritroviamo con un Ol’ Blue Eyes nella sua condizione attuale, cioè disseppellito e con un martini tra le sue mani decomposte).
“I Hate Work” si apre con i pattern di piatti di Pride che stabiliscono il ritmo di una versione di “Corporate Death Burger” al cui cospetto è difficile non far schioccare le dita, con Saft che fa affiorare la melodia nascosa nel brano, così come è riuscito a fare con pezzi degli ZZ Top o Bob Dylan. Lo shredding serrato di Mick Barr si fa strada con il passaggio a “Business on Parade”, in cui il chitarrista suona come un Sonny Sharrock death metal. La presenza di Barr sull’album era un must, dato che l’incoraggiamento del chitarrista, insieme a quello di Trevor Dunn, fu fondamentale nello spingere Pride ad unirsi a MDC. Barr è poi presente anche su “Greedy and Pathetic”, dove alla voce troviamo un assiduo collaboratore di Pride, Sam Mickens: il batterista ha suonato ed è stato direttore musicale per la Ecstatic Showband and Revue dell’ex cantante dei Dead Silence. La mente dei Foetus, JG Thirlwell, regala la sua rauca voce ad “America’s So Straight”, da cui viene tirata fuori una melodia perfetta per un musical off Broadway. Saft passa a un mellotron che suona quasi come una calliope per la cadenzata “Dick for Brains”, scambiandosi gli assoli con Pride durante il brano. La netta intro di “Dead Cops” sfocia in uno swing sbalorditivo, con Saft che si cimenta in un altro brillante giro di tasti. In linea con una serie di tre che caratterizzano il progetto – un LP a tre lati, un trio di vocalist ospiti – Pride firma anche tre composizioni originali, che prendono spunto dall’esplorazione dei brani degli MDC per sconfinare in un territorio diverso. Suona spazzole sussurranti sulla quasi funebre “And So You Know”, sostiene il ritmo di “Annie Olivia” – dal nome della sua giovane figlia – con un rombo metodico, mentre il veemente basso ad arco di Jones e il ronzante mellotron di Saft si combinano nell’inquietante melodia di “She Wants a Partner With a Lust for Life”, dedicata alla moglie di Pride.
La famiglia è centrale nella filosofia di Pride “Per me è importante che la mia famiglia non sia sottoposta a una vita familiare terribile perché il fatto che io sono un musicista”, dice “Così cerco sempre di dedicare loro un po’ di amore nei dischi”. Come dimostrato anche dalla presenza di Dictor, i membri di MDC hanno dato la loro benedizione al progetto “Sono molto contenti”, dice Pride il cui soprannome durante il suo periodo nella band era Baby Mongo. “CA causa della differenza di età, si sentono sicuramente un po’ come zii orgogliosi. Spero che il risultato siai rispettoso e aiuti a fare luce sulla loro musica, che è molto più interessante di quanto avrei mai pensato prima di entrare nella band”.I Hate Work è dedicato al bassista Mikey Donaldson, morto di overdose all’età di 46 anni.