III

Ad ogni nuova uscita l’universo degli Jü sembra diventare più grande e comprendere una gamma sempre più ampia di influenze. Il semplice titolo del loro nuovo album in uscita su RareNoise Records a fine settembre, “III”, descrive innanzitutto il fatto che questo sia il loro terzo lavoro come gruppo nonché il fatto di essere un trio. Ma richiama anche quella qualità mistica del numero tre, simbolo arcano di estrema importanta nelle culture di tutto il mondo. La musica del trio di Budapest composto dal chitarrista Ádám Mészáros, dal bassista Ernő Hock e dal batterista András Halmos riflette una spinta fondamentale ad esplorare tradizioni e idee da angoli remoti del mondo, per creare un suono percorso da innumerevoli influenze ma allo stesso tempo personale e non classificabile. In “III” a quel mix di vertiginoso prog-rock, feroce free-jazz, ipnotizzanti texture ambient e affascinanti ritmi est europei già presenti nei lavori passati si aggiunge l’influenza della musica del sud-est asiatico, in particolare il gamelan indonesiano e le estatiche composizioni devozionali dell’India. Il misticismo e l’intensità spirituale di queste tradizioni musicali si fondono nella potenza che la band riesce a sprigionare, creando un suono complesso ed evocativo. L’ibridazione di queste tradizioni musicali sono arricchite in “III” dalla presenza di due ospiti speciali: la vocalist Dóra Győrfi, cantante ungherese che lavora principalmente nel contesto di gruppi gamelan e wayang a Java, e il maestro dell’elettronica Bálint Bolcsó, collaboratore che aveva partecipato anche al precedente lavoro della band, “Summa” (RareNoise 2017).
“Ascoltiamo tutti i tipi di musica e le influenze emergono naturalmente”, spiega il batterista Andràs Halmos “Non ci interessano stili e tendenze quando componiamo. O forse sarebbe meglio dire che li teniamo in considerazione, ma solo per evitare di aderire a qualcuno di essi. Ci interessa fare qualcosa che sia nuovo per noi. Se dovessi menzionare delle influenze, sarebbero principalmente suoni, piuttosto che particolari generi o musicisti”. Ádám Mészáros aggiunge “La pandemia ha complicato la lavorazione di questo album nelle sue prime fasi, ma una volta che l’ispirazione è nata la scrittura è proceduta a ritmo sostenuto. E alla fine siamo riusciti a lavorare nel classico modo, sviluppando idee musicali che si erano accumulate dall’album precedente. Questa band è sempre stata incentrata intorno al nostro interesse per le tradizioni musicali non occidentali, che sono in grado di fornire un approccio diverso al modo in cui percepiamo la melodia o il ritmo, l’armonia o il tempo. E Dóra ha dato un enorme contributo in tal senso.” “Non avevamo un piano particolare, volevamo solo scrivere buona musica”, chiosa Hock. “Semplicemente scolpiamo i brani fino a raggiungere la giusta intensità”. La materia prima da cui è stato cesellato questo intenso album fa un uso molto libero della musica popolare del sud-est asiatico. L’interpretazione di Dóra Győrfi di questo mondo viene così inserita in un contesto nuovo, mentre la musica tradizionale ha spronato la band verso inaspettate deviazioni ritmiche e armoniche. “Siamo veramente stupiti dall’universo meravigliosamente lontano in cui ti proietta ad esempio la musica gamelan”, dice Mészáros. “Dopo aver chiesto a Dóra di collaborare le abbiamo fatto ascoltare la nostra musica e per la prova successiva si è presentata con diverse canzoni e testi che pensava potessero funzionare”.
“Palaran” apre l’album con un ruggito minaccioso ed ipnotico: Dóra Győrfi inserisce la canzone tradizionale “Palaran Durma Laras Slendro Pathet Nem”, mentre il trio fa bollire un calderone di percussioni la melodia rallentata e suonata sul guembri marocchino e sulla tambura serbo-croata. In “Cerberus” la batteria di Halmos dà vita ad un erratico stomp-rock, arricchito dalle sinuose melodie create alla chitarra da Mészáros e da Hock al basso, come se i Gentle Giant suonassero con una carovana gitana, esplodendo nel violento finale in un’inebriante free jazz. “Oak”, “Ash” e “Thorn” prendono in prestito melodie azerbaigiane e del gamelan indonesiano, filtrandole attraverso una foschia di riff space-rock e scrap-metal. “Bebek” è un interludio in cui la voce di Dóra Győrfi si innesta sull’elettronica cinguettante di Bolcsó e le linee vaganti create da Hock e Mészáros, seguito dal groove serrato di “Cornucopia”, che si dissipa in un’astrazione mentre l’ensemble si avventura ai confini estremi dei rispettivi strumenti. La tagliente frenesia di “Shashka” è costruita grazie ad un ritmo incalzante, mentre “Minerva” la segue come un vortice amorfo e mutevole, prima esplodendo in una danza tribale nordafricana, poi in un avant-math rock alla Battles. L’album si conclude con “Sumirana Karo Sada Dina Ratee”, bhajan – o canzone devozionale – indiano di Baba Somanath Ji, cantata con passione sincera da Andràs Halmos. “Sono un seguace di questo sentiero”, dice il batterista/vocalist “Sono stato iniziato nel 1994 da Sant Ajaib Singh Ji Maharaj, uno dei cui bhajan si può ascoltare anche nel nostro primo album, in versione strumentale. Ci sono tantissimi di questi bellissimi bhajan, ne abbiamo semplicemente scelto uno e in studio io ho iniziato a cantare, mentre Ádám ed Ernő hanno improvvisato”. Questo approccio istintivo e spirituale può dare grandi frutti. Nel caso di “III”, si traduce nell’album più emozionante degli Jü: mescolando elementi di world music, jazz sperimentale e rock e una vasta varietà di musiche tradizionali, elettronica d’avanguardia e folk antico, crea una somma ancora più profonda e pulsante delle già straordinarie parti che lo compongono.