It’s Morning

Fin dall’incipit costituito dall’invocazione omerica che apre “Atom Story”, è chiaro che il nuovo album dei Led Bib ha il preciso intento di trasportare l’ascoltatore in un viaggio senza confini. La band fondata nel 2003 da Mark Holub (nativo del New Jersey e ora viennese di adozione), nota per la sua aspra e sperimentale miscela di improvvisazione jazz e prog, ha costruito un percorso fatto di imprevedibili svolte e continue trasformazioni:  “It’s Morning” (in uscita il 27 settembre 2019 per RareNoise Records, la seconda pubblicazione per l’etichetta britannica, dopo “Umbrella Weather” del 2017) conserva un senso identificabile di avventura e virtuosismo, pur segnando un allontanamento dalle registrazioni precedenti, virando in direzione di una poetica più delicata e lisergica.
“Led Bib ha sviluppato un linguaggio di improvvisazione identificabile negli ultimi 15 anni”, spiega il batterista e leader della band Mark Holub. “Dopo tutto questo tempo abbiamo iniziato a chiederci come avrebbe potuto essere portare questo linguaggio in una zona completamente nuova”. Il cambiamento più evidente e immediato rispetto alle passate uscite dei Led Bib è l’aggiunta di voci, piegando il vocabolario della band in forme di vere, bellissime, canzoni, seppur complesse. La formazione principale della band – Holub, il bassista Liran Donin, i sassofonisti Chris Williams e Pete Grogan e il nuovo tastierista Elliot Galvin – sono affiancati da una coppia di vocalist di talento: Sharron Fortnam, co-fondatrice della North Sea Radio Orchestra, il cui mezzo soprano inebriante ha arricchito anche le registrazioni del noto gruppo prog-punk britannico Cardiacs; e Jack Hues, meglio conosciuto come frontman della new wave band anni ’80 Wang Chung.
Incorniciato da un paio di miniature atmosferiche che richiamano una fantasiosa Odissea, “It’s Morning” si lancia in una ricerca immersiva nei mari psichedelici. Questa atmosfera sarà arricchita nei live, quando la musica sarà integrata da un film, della durata dell’intero concerto, creato dal regista Dylan Pecora. Pecora ha realizzato un lungometraggio che esplora ed espande l’album e che nelle performance dal vivo sarà manipolato da VJ Oli Chilton. “Vorrei che i nostri live diventassero delle esperienze simili agli Acid Tests di Ken Kesey”, dichiara Holub. “Desidero che le persone si sentano trasportate altrove. D’altronde anche solo l’esperienza di stare seduti, tranquilli e immersi in maniera esclusiva in qualcosa per un’ora è una cosa significativa”. Holub definisce questo nuovo lavoro “musica di protesta” – ma non nel senso classico (non ci sono testi rivolti direttamente a temi di attualità politica), quanto piuttosto nel senso che ha sempre caratterizzato la produzione dei Led Bib: quello di una band che nuota contro le correnti del mainstream.
In retrospettiva, Holub trova le radici di “It’s Morning” nell’ascolto formativo di gruppi come Pink Floyd e Grateful Dead. L’influenza non è letterale; non c’è nulla sull’album che riecheggia direttamente il lavoro di Jerry Garcia o Syd Barrett. Quello che Holub ha imparato da quei gruppi è il senso di ciò che egli definisce come “autenticità”, l’idea di seguire i propri istinti per quanto lontano possano condurre. Il suono del nuovo album è nato organicamente in studio, a partire dai materiali condivisi tra Holub dalla sua casa d’adozione di Vienna e il resto della band in Inghilterra.
Il disco si apre con la già citata mistica “Atom Story”, la quale ci conduce verso il groove più urbano e distorto di “Stratford East”, in cui i testi di Hues evocano civiltà passate ora ricoperte da lastre di cemento, malinconicamente ricordate anche grazie al violino di Irene Kepl, in un’atmosfera stravagante che potrebbe ricordare le melodie spigolose dei Deerhoof. La contemporaneità fa capolinea nel breve intermezzo della title-track, con la Fortnam che recita riflessioni sull’onnipresente schermo digitale, accompagnata dal lamento del clarinetto basso di Susanna Gartmayer. Coi suoi 11 minuti di gran lunga il pezzo più ampio dell’album, “Fold” chiede all’ascoltatore di “Change the storyline” seguendo la dolente improvvisazione cosmica del gruppo, qui impegnato in quella che è l’escursione più floydiana dell’intero album. La successiva “Cutting Room Floor” è contraddistinta da un pulsante minimalismo, in cui le linee dei due vocalist a tratti si sovrappongono e confondono in un tribale borbottio, un dispositivo che ricorda il classico “The Murder Mystery” dei Velvet Underground.
L’intimità di un paesaggio urbano in una giornata nuvolosa è evocata nel testo interpretato dalla Fortnam in “To Dry in the Rain”, che si snoda tra una sussurrata contemplazione e una esplosiva intensità, prima di sfumare nuovamente nell’assolo elegiaco di Galvin, “O”. Il clamore astratto di “Flood Warning” lascia il posto ai momenti conclusivi di “Set Sail”, che getta lo sguardo verso gli orizzonti di un lontano futuro.